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L’anno che verrà

 

Due suggestioni per iniziare, entrambe dal Regno Unito. La prima riguarda un signore quasi centenario, Tom Moore, entrato in ospedale per curarsi, quindi guarito e dimesso. Tornato a casa, con il suo deambulatore compie ogni giorno dieci giri intorno alla casa testimoniando la forza della vita, collegando a questa sua impresa una raccolta fondi per il Servizio sanitario britannico. Il popolo inglese lo ha ricoperto di affetto, donando 23 milioni di sterline. Dalla resistenza al silenzio. Una scelta di silenzio creativo la scrive il cantautore Nick Cave nel suo bellissimo blog: “una e-mail ad un amico lontano, una telefonata a un genitore o fratello, una parola gentile a un vicino, una preghiera per coloro che lavorano in prima linea. Questi semplici gesti possono legare insieme il mondo – lanciando fili d’amore qua e là, collegandoci infine tutti – in modo che quando emergiamo da questo momento siamo uniti dalla compassione, dall’umiltà e da una maggiore dignità. Forse vedremo anche il mondo con occhi diversi, con un risveglio riverito per la cosa meravigliosa che è. Questo potrebbe essere il vero lavoro creativo di tutti”.

 

Creatività e silenzio in tempi di pandemia. Ma come hanno comunicato le aziende e i brand più importanti, in questo periodo? È stato chiaro fin da subito che la comunicazione avrebbe recepito immediatamente il disagio di un cambiamento forzoso. Molte aziende hanno detto grazie, altre hanno fatto ricorso alla solita salva di buoni sentimenti, altre hanno fatto appello alla resistenza sociale (ce la faremo), altre che non hanno esitato a comunicare quanto siano buone e brave e il logo in bella evidenza, altre che si sono appellate a una generica idea del fare comunità. Tutto molto autoreferenziale, e in alcuni casi stucchevole, per chi scrive. Eppure, mai come oggi le persone sono attente a ciò che le aziende fanno e dicono: secondo una ricerca IPSOS di marzo 2020, il 46% degli intervistati afferma di non acquistare da aziende che non abbiano preso posizione su temi sociali, culturali o politici, addirittura il 65% ritiene giusto che le marche si espongano su tematiche sociali rilevanti. Sempre il 65% dichiara il bisogno di avere aziende o marchi attivi sul fronte sociale, culturale e politico, di contro il 35% degli intervistati “abbandona” alcune marche perché deluso percepite su queste tematiche. Un significativo 37% afferma che il comportamento delle marche in ambito sociale o culturale influenza le proprie scelte di acquisto. Perché ogni persona è portatrice di sentimenti umanissimi, di bisogni complessi e sofisticati, conduttrice di socialità e contenuto di senso.

 

Se la pandemia ci ha svelato la distanza reale tra le persone e le aziende, rivelandoci i macroscopici limiti del mondo “com’era prima”, urge trovare un senso al “dopo” che ci attende. Se sarà capace di innescare un cambiamento, moderato o radicale, nelle nostre vite, nel nostro modo di lavorare e fors’anche di pensare. Le nostre abitudini del “prima” erano talmente consolidate che nemmeno più ci si rifletteva, e in fondo l’hashtag #iorestoacasa suona meno difficile da accettare rispetto alla sfida di scenari di senso da rivedere, ripensare, ricostruire. Anche la comunicazione aziendale non era pronta, ed è stata chiamata di corsa a supplire quel vuoto di relazione, salvo poi accorgersi che fare buona comunicazione significa anzitutto dialogo e ascolto, significa lavorare su una relazione tra azienda e persone, sul senso di appartenenza, e non certo inondare di un sentimentalismo generico i siti, gli spot e i canali social. Ma questo è stato il mondo del “prima”, il mondo del “dopo” è tutto da costruire. Vediamo alcuni possibili scenari.

 

“Caro amico ti scrivo, così mi distraggo un po’”

 

La prima idea è questo tempo sospeso non sia un tempo buttato alle ortiche ma una splendida occasione per ricalibrare il nostro modo di essere, le nostre scelte, le consapevolezze e le nostre responsabilità. Centrale si rivelerà l’idea stessa di relazione con l’altro, quella che ci ha sorretto in questi mesi e che ci ha mostrato quanto sia bello, nella sua semplicità, il poter parlare con gli amici, il vedere i loro volti attraverso un laptop, lo scambiarsi idee e parole. Qualcosa di meraviglioso che prima non facevamo abbastanza, qualcosa di semplice di genuino che ha dissolto come neve al sole tante inutili ritualità delle nostre giornate antecedenti. Un tempo di isolamento che ci ha concesso il privilegio di leggere, scrivere agli amici, cucinare, giocare, e forse anche la possibilità di sognare il momento in cui saremo di nuovo liberi di uscire e di viaggiare. E ci ha insegnato la pazienza, virtù antica. Quando rimetteremo il naso fuori da casa forse il mondo sarà cambiato, o forse no, o forse ancora saremo stati noi a dare un piccolo contributo a quel cambiamento. Il distanziamento sociale di questo periodo ci ricorda che siamo tutti collegati, che la nostra libertà è fragile, che potrebbe compromettersi ma al contempo ci dà valore. La mia libertà è un bene troppo prezioso perché sia soltanto io il suo unico padrone.

 

Andare alla radice. Dwight Macdonald sosteneva che radicale significa andare alla radice, e che “la radice è l’uomo”, the root is man. Abbiamo visto in queste settimane il mondo animale riappropriarsi di spazi naturali, e questo ci ha dato sollievo e speranza. Se le scelte di alcuni singoli ricadono sulle moltitudini globali, il mio essere individuo/indivisibile si rivela un’ontologia sempre più compromessa. Siamo tutti collegati e non possiamo fingere di non esserlo. La stessa parola solidarietà, mai così piena e bella come nelle ultime settimane, rischia di diventare vuota e inutile se scollegata a un senso del limite che in quanto uomini dovremo ricalibrare, a cominciare dal fragilissimo equilibrio ecologico su cui si regge il pianeta. E sulle risorse finite di cui dispone. La via maestra è abbandonare le logiche mercantili che “costringono” e danneggiano l’uomo e abbracciare un nuovo umanesimo che esalti l’uomo nelle sue possibilità più alte e virtuose. Non si tratta di “diventare buoni” alla Nick Hornby, quanto invece di coniugare la dimensione economica e quella sociale come finora non è (quasi mai) stato fatto. Se lo scambio non contempla coesione sociale ma solo competizione e profitto, è evidente che la natura e l’uomo andranno sempre sotto.

 

In questo momento le certezze sono poche e le incognite moltissime. La “nuova normalità” non sappiamo quale volto avrà, quali App userà, quali tecnologie inventerà e quali altre abbandonerà. La certezza è che percorrere strade nuove serviranno mezzi nuovi, quelli oggi in circolazione sono già desueti. Vivremo stagioni di forti incertezze, che potremo contrastare facendo ricorso alla nostra agilità emotiva. Cambierà il nostro modo di “occupare” il pianeta, le nostre città potranno tornare ad essere luoghi vivibili (e non più invivibili, come presagiva Italo Calvino), con un rinnovato rispetto per la natura e per un mondo animale senziente e parimenti intelligente. Scriveremo nuove sceneggiature di vita urbana poiché gli spazi di vita e di lavoro saranno sempre più ibridi e multifunzionali, le stesse comunità sia reali che “a distanza” progetteranno nuove forme per coniugare il bello con l’utile. In tutto questo la tecnologia giocherà un ruolo decisivo, in particolare il concetto di “interoperabilità” alla base di esperienze di condivisione che sono innovative e coraggiose.

 

“Voglio trovare un senso a questa storia”

 

Verso un nuovo umanesimo. Tutto in funzione dell’uomo, nulla contro l’uomo. È il vuoto di senso da colmare, ma è anche l’unico modo di ripensare l’approccio delle grandi aziende nei confronti delle persone. Le persone al centro dei processi economico sociali. Persone appunto, non più segmenti di mercato, o cluster sociodemografici o buyer personas. Persone in carne ed ossa, con desideri e sentimenti, aspettative e sogni, bollette da pagare, figli da crescere e una buona dose di beghe quotidiane da risolvere. Fiducia che si fonda sulla credibilità, che si basa sulle competenze. Onestà è saper ammettere i propri errori, gli inciampi del proprio operare. Empatia. Gestire emozioni e relazioni, rafforzare le soft skills. E capacità di fare innovazione e trasformazione digitale in ottica human centered design.

 

Forse costruiremo città più belle ed accoglienti, colorate e meno omologate, con piazze e parchi per passeggiare, teatri per divertirci e biblioteche per pensare. Forse i nostri stili di vita saranno più semplici, più attenti alle cose che contano davvero, più vicini alla vera essenza dell’uomo. Forse costruiremo nuove reti sociali fondate sulla collaborazione e sulla condivisione, nuove tecnologie ci aiuteranno a costruire una nuova co-economy, autentica e rispettosa. Ci sposteremo sempre meno per lavorare e sempre di più per viaggiare e divertirci. Avremo più qualità e meno quantità. Sempre vulnerabili e fragili, ma forse più liberi e più uniti.

 

Alberto Grossi

Energee3 digital blogger

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